giovedì 17 novembre 2022

DODICI RACCONTI RAMINGHI: GARANTISCE GABO...

Si tratta di una raccolta di racconti dello scrittore colombiano Gabriel García Márquez (1927-2014), premio Nobel per la Letteratura 1982, già autore di Cent’anni di solitudine, Cronaca di una morte annunciata e L’amore ai tempi del colera. Giornalista e sceneggiatore, il grande Gabo ha sempre avuto una predilezione per la narrativa breve e questi Dodici racconti raminghi ne sono la testimonianza perfetta: come spiega nell’introduzione alla raccolta, i soggetti di questi dodici racconti hanno avuto una gestazione ultradecennale, hanno rischiato di finire perduti, sono stati faticosamente ricostruiti, finalmente sono sbocciati in racconti, sottoposti ad una spietata revisione che ne ha lasciati in piedi soltanto dodici, e decisamente raminghi, considerando l’accidentata odissea che hanno dovuto attraversare prima di diventare un libro. Gli elementi comuni ai dodici racconti superstiti sono quelli che ci si potrebbe attendere da García Márquez: molti rientrano a buon diritto nel realismo magico che ha fatto la fortuna dello scrittore originario di Aracataca, vari mostrano una spiccata prospettiva autobiografica (essendo nati nel corso delle molteplici residenze che Gabo ha cambiato per il mondo) e sono narrati in prima persona, parecchi vedono protagonisti personaggi che riescono a risultare indimenticabili nella manciata di pagine necessarie a raccontare una storia. Si comincia con il malinconico ritratto di un presidente latinoamericano in esilio di Buon viaggio, signor presidente e si conclude con la lancinante e tristissima luna di miele del conclusivo La traccia del tuo sangue nella neve. Nel mezzo ai due estremi l’autore ci presenta molteplici e diversissimi ritratti, alcuni immaginati, altri ricostruiti minuziosamente: dal suo viaggio contemplativo in quota al fianco di una bellissima compagna di viaggio tra le braccia di Morfeo ne L’aereo della bella addormentata al fatto di cronaca raccontato dopo un anomalo incidente automobilistico che ha visto vittima una signora che di professione sognava il futuro in Mi offro per sognare, dall’allucinante destino di una donna internata per caso in un improbabile manicomio nel racconto “Sono venuta solo per telefonare” all’atipico horror a sorpresa in un castello aretino con fantasma di Spaventi di agosto. Assolutamente da provare.

Gabriel García Márquez, Dodici racconti raminghi, Milano, Mondadori, 1994; pp. 203

giovedì 3 novembre 2022

SUPER SIZE ME: IL LIBRO

All’indomani dell’uscita nei cinema del suo fortunato documentario Super Size Me, premiato nella relativa categoria al Sundance Festival del 2004,  il regista americano Morgan Spurlock, classe 1970, pubblicò anche Non mangiate questo libro, che approfondisce e documenta il notevole lavoro di ricerca che poi è finito soltanto parzialmente nel film. Lo stile del libro è in perfetto accordo con quello del documentario: l’autore ha scritto un saggio assolutamente coinvolgente e divertente da leggere, davvero in linea con il brio registico che caratterizza Super Size, che ha una struttura diaristica di base – un pazzesco ed estremo esperimento alimentare a cui lo stesso regista si sottopone per trenta giorni mangiando solo cibi della catena McDonald’s a colazione, pranzo e cena per registrarne gli effetti sull’organismo umano sotto il controllo di un’équipe medica – in cui alle classiche interviste e sequenze narrative s’intarsiano parti animate e brani rock che rendono il documentario molto accattivante da vedere. Non mangiate questo libro prende avvio sfruttando il divieto del titolo per arrivare a riflettere sul concetto di ‘etichetta d’avvertenza’, nata negli Stati Uniti per difendere dalle cause legali dei clienti danneggiati tutte le aziende produttrici: Spurlock ribadisce infatti che il suo libro è solo per uso esterno, o al limite potrebbe essere considerato cibo per la mente… Tutto è cambiato quando, dopo decenni di pubblicità (peraltro ingannevole) finanziata dalle multinazionali del tabacco che hanno spinto soprattutto i giovani ad iniziare a fumare precocemente mostrando il vizio del fumo come una tendenza cool, a fine anni Novanta hanno preso avvio le prime cause risarcitorie collettive (o class-actions che dir si voglia) contro i principali produttori di sigarette da parte di alcuni stati per arginare le crescenti spese sanitarie per i danni causati dal fumo (che hanno iniziato a comparire sui pacchetti di sigarette). Secondo Spurlock sarebbe un atteggiamento emblematico del modello consumistico americano attuato anche da altre tipologie di industrie, come quelle automobilistiche o quelle alimentari, che hanno speso miliardi di dollari per convincere gli americani di aver bisogno di macchine per andare ovunque e di sempre più cibo, senza peraltro ottenere mai la felicità, perché consumare porta soltanto a consumare ancora di più. Lo spunto per Super Size Me – titolo mutuato dal menu XL venduto all’epoca da McDonald’s e poi soppresso dopo il successo del film – è nato appunto dalla causa intentata alla catena della grande M da due fedelissime clienti adolescenti gravemente obese: il giudice non si pronunciò però a loro favore adducendo la motivazione che si sarebbe dovuto dimostrare che la loro obesità sarebbe stata causata da una dieta esclusivamente di prodotti venduti da McDonald’s. L’esperimento estremo di Spurlock nasce da qui, per registrare i danni provocati sul suo organismo da trenta giorni di bagordi alimentari a base di Big Mac, patatine fritte, Coca Cola e affini. Risultato: undici chili e mezzo (soprattutto di massa grassa) in più e valori del sangue completamente sballati. La dipendenza da fast food è un problema difficile da risolvere anche perché i ragazzi americani fanno poca attività fisica e mangiano male (di solito, almeno) anche nelle mense scolastiche: da adulti questo modello sballato spesso degenera nell’obesità e in altre patologie. Catene di ristoranti come McDonald’s, Burger King e Taco Bell amplificano il problema per la qualità discutibile dei prodotti e per l’efficacissima pubblicità capace di catturare l’attenzione dei clienti fin da piccoli (basti pensare agli irresistibili gadget degli Happy Meal per bambini). Che fare dunque? Secondo Morgan Spurlock siamo ciò che mangiamo e, se mangiamo pessimo cibo, non avremo una buona salute. Dovremo dunque impegnarci ad essere genitori modello anche in ambito alimentare con le nuove generazioni, attenderci che anche gli insegnanti facciano lo stesso e… votare con le nostre forchette, puntando sui politici che sostengono un modello di alimentazione corretta ed equilibrata. Non mangiate questo libro è un saggio corposo ma agile che sviscera in profondità il modello alimentare dei fast food e dintorni, indicandoci la via da seguire per evitare la dipendenza dal cibo spazzatura: un pugno allo stomaco (ricco d’ironia) contro l’industria del cibo.

Morgan Spurlock, Non mangiate questo libro, Roma, Fandango Libri, 2005; pp. 341

mercoledì 2 novembre 2022

ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE: RITA LEVI MONTALCINI SI RACCONTA…

La scienziata torinese Rita Levi Montalcini (1909-2012) salì agli onori della cronaca internazionale  grazie alla scoperta del Nerve Growth Factor (NGF), ovvero in virtù degli studi che le consentirono di vincere il premio Nobel per la Medicina nel 1986. L’Elogio dell’imperfezione è la sua autobiografia, che la Montalcini pubblicò giusto l’anno successivo. In questo libro l’autrice racconta le tappe più significative della sua vita e il suo approccio alla ricerca scientifica, tratteggiato come un cammino esistenziale in cui è necessario riconoscere i propri errori, imparare a conviverci e magari superarli trovando una soluzione per arrivare all’obiettivo finale. In tal senso il cammino di un ricercatore onesto e determinato spesso è destinato all’imperfezione, a cui quindi Rita Levi Montalcini intende rivolgere un elogio col suo libro. Si tratta di un’autobiografia convenzionale, comunque, quindi l’autrice parte affrescando la sua città d’origine, la Torino d’inizio Novecento, racconta la sua famiglia, i suoi interessi e ovviamente il momento topico in cui, in seguito alla malattia di una persona vicina alla famiglia, prese la decisione di studiare medicina nonostante avesse frequentato il liceo femminile, che non consentiva di proseguire gli studi universitari: così, dopo aver superato l’opposizione del padre, affettuoso ma autoritario, Rita Levi Montalcini insieme a un’amica prese la decisione di prepararsi autonomamente per superare l’esame di ammissione all’università. Poi, pagina dopo pagina, Elogio dell’imperfezione ci porta lungo le varie fermate esistenziali dell’autrice: gli studi universitari, la morte del padre, le difficoltà causate dalle leggi razziali, il trasferimento negli Stati Uniti, a Saint Louis, il ritorno in Italia anni dopo per ricongiungersi con la famiglia. Il libro si conclude con una sorta di lettera rivolta a Primo Levi per il messaggio che lo scrittore aveva consegnato ai suoi lettori ritrovando la luce dell’Ulisse dantesco nell’inferno di Auschwitz. È davvero un bel viaggio autobiografico, insomma, quello raccontato nell’Elogio dell’imperfezione: con la sua prosa essenziale ed elegante al contempo Rita Levi Montalcini ricorda le sue scelte, gli studi, la sua famiglia, i luoghi della sua vita, la ricerca scientifica. Assolutamente da leggere.

Rita Levi Montalcini, Elogio dell’imperfezione, Milano, Garzanti, 1988; pp. 232

mercoledì 19 ottobre 2022

STEVENSON, UNA MAPPA E... QUINDICI UOMINI SULLA CASSA DEL MORTO!

Nonostante L’isola del tesoro sia stato spesso apparentato alla narrativa per ragazzi tout court, il romanzo di Robert Louis Stevenson (1858-94) regge da vero classico qual è alla prova del tempo grazie agli ottimi ingredienti miscelati nell’impeccabile ricetta letteraria: un protagonista sveglio ed adolescente come Jim Hawkins, un ambiguo villain del calibro di Long John Silver, una vera goletta settecentesca come la Hispaniola, un pugno di vecchi bucanieri, un'autentica mappa del demoniaco capitano Flint, una misteriosa isola del tesoro da trovare (e magari dove perdersi). Dal futuro autore de Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde un grande classico che, parafrasando Calvino, non finisce mai di dire quel che ha da dire, intrigante per lettori di tutte le età, fruibile a svariati livelli ma, dato che Stevenson lo dedicò al figliastro Lloyd Osbourne nel 1882, vale indicarne il taglio pedagogico: una caccia al tesoro che equivale, per il giovane protagonista, ad un itinerario d’ingresso nella maturità, alla scoperta della spietatezza che domina incontrastata i rapporti umani nel mondo, spesso regolati da un’etica di marca economica. Eppure è con gioia e trepidazione che il giovane Hawkins parte alla volta del tesoro nascosto in un’isola dei mari del Sud “su una goletta, con un nostromo che avrebbe suonato il fischietto, e marinai dal codino incatramato che avrebbero cantato: sul mare, verso un’isola sconosciuta, alla ricerca di tesori nascosti!”. L’isola del tesoro prende avvio quando Jim trova nel baule di Billy Bones, vecchio lupo di mare morto ammazzato nella sua locanda, l’Admiral Benbow, una mappa per una fantomatica isola del tesoro e la consegna al dottor Livesey ed all’aristocratico Trelawney, che in breve organizzano la spedizione di ricerca. Il richiamo dell’oro di John Flint, pirata d’inaudita ferocia, dividerà immediatamente l’equipaggio approdato alla malsana isola tropicale: da una parte Jim, Trelawney, Livesey, il capitano Smollett e pochi altri buoni, dall’altra il resto della ciurma, un tempo agli ordini di Flint in persona, capeggiati dal suadente Long John Silver che, nonostante abbia una gamba di legno, si rivelerà il più furbo e spietato di tutti. Alla fine, con non poche difficoltà e grazie all’aiuto dello strano Ben Gunn (ex bucaniere abbandonato nell’isola tre anni prima), i buoni avranno la meglio, ma Jim Hawkins resterà turbato per sempre dal tributo di sangue gravante sullo straordinario tesoro. Indicato dai nove anni in poi, come suggeriscono i curatori dell'edizione Einaudi, che è l'età più adatta per perdersi in questa straordinaria avventura di crescita con occhi (empatici) da adolescente, ancor più godibile in un'edizione illustrata come questa. In realtà il classico stevensoniano regge a meraviglia all'usura del tempo, dunque ne consigliamo vivamente la scoperta (o la riscoperta) anche ai lettori più maturi, anche a chi l'ha letto in tempi più verdi: una vera garanzia per tornare all'adolescenza con un biglietto di andata e ritorno... 

Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Torino, Einaudi, 2010; pp. 330

sabato 15 ottobre 2022

LE NOVELLE RUSTICANE DI GIOVANNI VERGA

L’autore siciliano Giovanni Verga (1840-1922) pubblicò la raccolta delle Novelle rusticane nel 1883, nel punto culminante della sua produzione narrativa, tra l’uscita dei suoi capolavori romanzeschi, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, editi rispettivamente nel 1881 e nel 1889. Le Novelle rusticane insieme alla precedente raccolta di novelle intitolata Vita dei campi costituiscono una sorta di galleria tematica di elementi del Verismo destinati a trovare una più ampia trattazione nelle ambientazioni dei romanzi maggiori. Rispetto a Vita dei campi nelle storie raccontate nelle Novelle rusticane affiora maggiormente il pessimismo di Verga, che occulta la propria voce narrando storie di ordinaria umanità dei più bassi ceti sociali del Meridione, ambientandole spesso nel periodo dell’impresa dei Mille di Garibaldi, che negli intenti avrebbe dovuto portare un po’ di giustizia sociale ma che poi ha finito per tradire le aspettative del popolo, di cui Verga tratteggia l’amara disillusione. Le Novelle rusticane assortiscono complessivamente dodici novelle, ovvero Il ReverendoCos’è il reDon Licciu PapaIl MisteroGli orfani, La roba, Storia dell’asino di S. GiuseppePane neroI galantuominiLibertàDi là dal mare. Dieci delle novelle erano inedite al momento della pubblicazione, mentre due erano state già pubblicate su riviste: La roba era infatti uscita sulla “Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti” del 26 dicembre 1880 e Libertà nella “Domenica letteraria” del 12 marzo 1882. Le due novelle costituiscono senza dubbio i due vertici artistici della raccolta. Nella prima Verga dà forma e sostanza a Mazzarò, singolare esempio di contadino arricchito ed abbrutito dall’ossessione per la cosiddetta “roba”, ovvero per le ricchezze accumulate a dismisura che non sopporta di dover abbandonare, ormai essendo vecchio e destinato a morire: si tratta di un personaggio con notevoli punti in contatto col protagonista di Mastro-don Gesualdo, che vive un’arrampicata sociale culminata nella ricchezza ma che non porta felicità alla sua esistenza. La seconda novella, Libertà, è ispirata a un fatto storico avvenuto a Bronte nell’agosto del 1860, durante l’impresa dei Mille, quando i contadini si rivoltarono contro i notabili locali, contando sul fatto che le proprietà terriere dei nobili sarebbero state ridistribuite al popolo, mentre invece Garibaldi inviò sul posto il fidato Nino Bixio per punire i responsabili dei crimini commessi e ristabilire l’ordine. La novella non cita luoghi e nomi, ma il riferimento alla strage è evidente e la rivolta popolare è tratteggiata come una fiumana inarrestabile, attraverso voci corali che contrappuntano le violenze narrate a tinte forti. Questa raccolta rappresenta un viadotto ideale per entrare nel complesso mondo narrativo di Verga.

Giovanni Verga, Novelle rusticane, Napoli, Medusa, 2007; pp. 167

lunedì 10 ottobre 2022

MUSCHIO: UN'AVVENTURA A QUATTRO ZAMPE IN TEMPO DI GUERRA

L'eclettico autore di Muschio si chiama David Cirici, nato a Barcellona nel 1954, ed ha svolto un sacco di professioni nella vita: docente di lingua e letteratura, pubblicitario, sceneggiatore per la radio e per la televisione. Muschio è un folgorante racconto degli orrori della guerra visti attraverso gli occhi di un cane nero di pelo riccio che si chiama, appunto, Muschio. Essendo un cane, il nostro protagonista, che è dotato di un fiuto eccezionale con cui è solito leggere il mondo e archiviare i suoi ricordi, non è in grado di comprendere qualcosa di complesso (e, sostanzialmente, incomprensibile) come la guerra. Prima era un 'normale' cane da compagnia e amava i due bambini della famiglia che l'aveva adottato, insieme ai quali adorava giocare tutti i santi giorni, ma purtroppo a un certo punto una bomba è arrivata a distruggergli il suo mondo perfetto in un attimo. Lui  però riesce a ricordare i suoi due padroncini ancora oggi grazie ai loro odori unici ed irripetibili, oltre a quella deliziosa sensazione di solletico che accompagnava i loro momenti di gioco insieme a lui. Ogni tanto, infatti, girovagando per le rovine della città, quell'odore ricompare a sprazzi, ma per il nostro eroe a quattro zampe poi risulta sempre impossibile ritrovarne la fonte, purtroppo, anche se lui senza dubbio non smetterà di provarci. Una pagina dopo l'altra ricostruiremo la storia di Muschio e le sue infinite avventure, che lo porteranno in situazioni difficili o a contatto con persone orribili, spesso abbrutite dalla guerra: il nostro eroe troverà un variopinto gruppo di compagni di viaggio, finirà dietro le sbarre, diventerà un implacabile  guardiano di vittime, combatterà con bestie feroci e avrà a che fare con esseri umane anche più mostruosi. Il tutto sorretto dall'incrollabile speranza di riuscire un giorno a ritrovare i bambini che ha perduto e che continuano a dare un senso alla sua vita grazie all'incancellabile ricordo olfattivo che Muschio conserva di loro. Corredano questa bella storia per ragazzi, che nel 2013 ha vinto il prestigioso Premio Edebé de Literatura Infantil, le incisive illustrazioni di Federico Appel. Si tratta di un romanzo semplice ma davvero incisivo, che cattura progressivamente con l'originalità della prospettiva dal basso di un cane di buona volontà costretto a ritrovare il suo perduto posto nel mondo in tempo di guerra. Da provare.

David Cirici, Muschio, Milano, Il Castoro, 2015; pp. 117

domenica 9 ottobre 2022

IL SOGNO DEGLI ANDROIDI E IL CUPO FUTURO DI PHILIP K. DICK

Il romanzo in assoluto più noto della sterminata produzione dello scrittore americano Philip K. Dick (1928-1982) risale al 1968 e s’intitola Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, ma in Italia il libro è stato pubblicato anche col titolo Il cacciatore di androidi e ovviamente Blade Runner, mutuando l’omonimo film di Ridley Scott del 1982 con Harrison Ford, Rutger Hauer e Sean Young, indiscusso cult movie del cinema fantascientifico. La storia è ambientata nell’oscuro scenario post-apocalittico della San Francisco del 1992, in un mondo in decadenza da cui l’umanità ha cercato di scappare emigrando nelle colonie extramondo. Sulla Terra le specie animali sono praticamente tutte estinte e quindi in molti cercano di acquistare copie di animali prodotte in laboratorio o i meno pregiati simulacri robotici, esattamente come la pecora elettrica (peraltro mal funzionante) del protagonista della storia, Rick Deckard, di professione cacciatore di taglie di androidi sfuggiti al controllo degli umani e dunque da ‘ritirare’ ovvero da eliminare. Il buon Deckard vive con la moglie Iran e si sente frustrato per non essere riuscito ancora ad acquistare un animale domestico vivente: anche per questo, oltre che per sfuggire alla noia, accetta di concludere un incarico lasciato a metà dall’anziano cacciatore di taglie Dave Holden, rimasto ferito dopo aver ucciso due degli otto androidi modello Nexus 6 fuggiti dalla colonia extramondo di Marte. Subito Deckard con la sua aeromobile si reca a Seattle ai laboratori della Rosen Industries, dove sono stati prodotti gli androidi fuggitivi: qui incontra Rachael Rosen, nipote di Eldon Rosen, il proprietario dell’azienda, e, dopo averla sottoposta al test Voight-Kampff, scopre che la donna è una replicante. Successivamente Deckard finisce sulle tracce di una cantante lirica androide ma, mentre sta cercando di sottoporla al test per avere conferma della sua natura,  lei chiama la polizia:  il protagonista si ritrova così in una centrale che sembra essere un covo di replicanti e riesce ad uscirne solo grazie all’aiuto di un collega. Nel frattempo gli androidi Nexus 6 superstiti si rifugiano nel palazzo dove vive lo “speciale” Isidore, un uomo solitario dal basso quoziente intellettivo (forse a causa delle piogge radiattive): è qui che cercheranno di organizzarsi in vista dell’immancabile resa dei conti con il cacciatore di androidi. Romanzo distopico per eccellenza, Blade Runner tratteggia il cupo quadro di un drammatico futuro incombente su un’umanità capace di creare copie replicanti di se stessa e della vita animale ormai scomparsa dal pianeta Terra ma che i superstiti avvertono come un imprescindibile status symbol esistenziale. È un futuro oscuro, opprimente e senza speranza quello immaginato da Philip K. Dick: nelle case di tutti ci sono dispositivi che regolano l’umore – quasi a figurare una necessità di serenità interiore almeno illusoria –, gli onnipresenti programmi televisivi contrappuntano la narrazione ed è arduo talvolta riconoscere gli androidi, creature senzienti ma prive di empatia, dagli umani più spietati. Insomma, Deckard cacciando i replicanti scruta nel torbido e intravede schegge di se stesso, finendo per dubitare delle sue capacità e presagendo l’impossibilità di continuare la sua professione. Dal libro di Dick il grande Ridley Scott ha ottenuto un film che riesce ad immaginare con profondo impatto visivo l’ambientazione del romanzo (spostata nella Los Angeles del 2019), pur stravolgendone la storia: Deckard diventa un futuribile detective solitario che Chandler avrebbe apprezzato, Rachael viene riletta come una replicante di nuova generazione che ignora la propria natura, i replicanti in fuga sono androidi che stanno per esaurire il loro tempo di vita e cercano disperatamente di prolungare la loro esistenza a tempo determinato. Tutto per arrivare al clou drammatico del sorprendente confronto finale tra il protagonista e l’unico antagonista ancora vivo ma condannato comunque a sparire come lacrime nella pioggia…

Philip K. Dick, Blade Runner, Roma, Fanucci, 1996; pp. 254

OPEN: LA STORIA DI ANDRE AGASSI

Lui è Andre Agassi da Las Vegas, classe 1970, uno dei talenti più cristallini che abbiano mai giocato su un campo di tennis, uno sportivo ch...