Questo
libro racconta la vera storia di Iqbal Masih, un ragazzo pakistano dodicenne
che in tutto il mondo è diventato il simbolo della lotta contro lo sfruttamento
del lavoro minorile. L’autore di Storia
di Iqbal, Francesco D’Adamo, classe 1949, è ormai da tempo una firma
importante della narrativa per ragazzi: la sua ovviamente è una versione
romanzata della storia di questo coraggioso dodicenne, che forse è stato
descritto, come ammette lo stesso autore nella prefazione, un po’ più bello e
coraggioso di come magari fu nella realtà. D’Adamo invece ci confessa d’aver
inventato di sana pianta il personaggio di Fatima, la compagna di prigionia di
Iqbal che ci racconta la storia in prima persona, anche se sicuramente un’amica
o un amico gli sono stati accanto e hanno condiviso la sua sorte. È appunto
attraverso i ricordi di Fatima che l’autore ci porta nel laboratorio di tappeti
di Hussain Khan, nella periferia di Lahore, dove scopriamo il dramma comune di
tanti bambini ceduti ad un padrone in cambio di pochi dollari e poi ridotti in
schiavitù, incatenati ad un telaio a tessere tappeti in ambienti malsani, caldi
d’estate e freddi d’inverno, a lavorare ininterrottamente da mezz’ora prima
dell’alba fino a sera in cambio di una forma di pane chapati da intingere in
una grande ciotola comune piena di crema di lenticchie, per dormire poche ore
su scomodi giacigli e quindi ricominciare da capo l’indomani, finché non
avranno ripagato il debito delle proprie famiglie. Ma il debito di questi
piccoli lavoratori sta scritto su delle lavagne da cui ogni giorno il padrone,
se lo ritiene opportuno, cancella l’equivalente di una rupia: ma in realtà il
debito non si estingue mai. Un giorno nella fabbrica di Hussain Khan approda Iqbal,
rilevato da un altro padrone che ha deciso di disfarsene, nonostante la
grandissima abilità del ragazzo ad intessere tappeti, per la sua propensione
alla fuga ed il suo carattere particolarmente orgoglioso. Iqbal, come milioni
di altri bambini nella sua situazione, è stato ceduto dai suoi genitori,
contadini finiti in miseria, in cambio di appena 26 dollari. Non passa molto
prima che Iqbal dimostri al suo nuovo padrone di che tempra è fatto,
squarciandogli un tappeto di gran pregio – che lui stesso aveva intessuto,
l’unico tra i piccoli lavoranti della fabbrica ad esserne capace – davanti agli
occhi: è così che il giovane protagonista finirà nel luogo più temuto dai suoi
compagni di schiavitù, la Tomba, una prigione ricavata in una cisterna buia e
malsana. Nonostante le difficoltà, Iqbal riuscirà a fuggire ed avrà il coraggio
di denunciare il proprio padrone che, dopo essersi salvato una prima volta
corrompendo i poliziotti, finirà poi in carcere. Riacquistata la libertà, Iqbal
continuerà ad impegnarsi attivamente in un’associazione contro lo sfruttamento
del lavoro minorile, diventando un simbolo e contribuendo alla liberazione di
centinaia di piccoli schiavi, prima di morire assassinato per mano di sicari
della cosiddetta “mafia dei tappeti” il 16 aprile 1995. Una gran bella storia, insomma:
in questo romanzo di denuncia, triste e realistico al tempo stesso, D’Adamo ci
ricorda il valore della libertà e il diritto dei bambini a crescere in armonia,
a giocare ed a sognare. L’edizione 2015 dell’Einaudi, celebrativa del
venticinquennale della morte di Iqbal, è introdotta da una bella prefazione del
giornalista Gad Lerner, che riflette sull’importanza della figura dello
sfortunato giovane attivista pakistano e su quello che ha rappresentato per i
bambini che lavorano che, dati UNICEF alla mano, nel mondo ammontano a ben 168
milioni, più del 10% della popolazione infantile del pianeta.
Francesco D’Adamo, Storia di Iqbal, Torino, Einaudi, 2021; pp. 141