È
sicuramente un libro di Roald Dahl (1916-1990) – peraltro arricchito dai
disegni del suo fedele illustratore Quentin Blake – ma Boy è quanto di più diverso dalla tipica produzione narrativa del
grande scrittore britannico: non si tratta infatti di un romanzo e neppure di un’opera
di fantasia anche se, curiosamente, trattandosi dell’autobiografia della sua
infanzia fino alla giovinezza, assortisce il materiale grezzo, per così dire,
che sta alla base di tutti i suoi romanzi e racconti per ragazzi, sempre
raccontato con quell’irresistibile humour
che gli estimatori di Dahl, grandi e piccoli, adorano. Il libro è
articolato in quattro sezioni: comincia con Punto di partenza per farci conoscere la complessa famiglia Dahl,
di origine norvegese, piena di figli e di lutti, e dei primi passi dell’autore
nel giardino d’infanzia di Villa Olmo fino ai sette anni, poi il piccolo Roald
inizia a frequentare Llandaff, la sua prima scuola, dove iniziano le prime
difficoltà, quindi a nove anni il futuro scrittore si trasferisce al collegio
St. Peter’s, dove la durezza è di casa, e infine a tredici passa a Repton, un
collegio ancora più duro, da dove uscirà ventenne e disgustato dalla scuola per
entrare nella Shell allo scopo di scoprire il mondo. In Boy l’autore si muove con leggerezza e nostalgia rievocando i
ricordi dolceamari che hanno caratterizzato le sue esperienze scolastiche, che
di sicuro non sono state piacevoli (per quanto senza dubbio memorabili) ma raccontano di un sistema
educativo, quello britannico, apparentemente costruito sulla disciplina e sulla
mortificazione sistematica dello studente. Roald Dahl ricostruisce un mosaico
di avventure giovanili anche molto divertenti e narrate in punta di penna,
soffuso di un umorismo leggero e intrigante anche quando raccontano punizioni
fisiche o pesanti umiliazioni subite sulla propria pelle: da una scuola all’altra
l’autore ricorda più che altro di aver cercato di limitare i danni e
sopravvivere a direttori violenti, a maestri spietati o ad alunni più grandi e
sadici rispetto a lui ma, incredibilmente, riesce a farlo senza mai lamentarsi
troppo ma come se tutto ciò che gli è capitato fosse semplicemente nell’ordine
delle cose e dunque andasse sopportato, magari anche facendoci sopra qualche
sana risata. E di divertimento Boy ne
regala a mucchi, per esempio con l’incredibile vendetta perpetrata dall’autore
verso una maleducatissima venditrice di dolciumi mettendole un topo morto
dentro un recipiente di vetro pieno di caramelle oppure con la cronaca dettagliata di
un’operazione senza anestesia perpetrata a tradimento su di lui da un medico
durante le vacanze estive ad Oslo dai nonni. Non manca neppure l’evocazione struggente
della madre, donna umanamente dolce quanto determinata a crescere al meglio i
cinque figli nonostante la vedovanza precoce. Alla fine, quando nelle ultime
pagine Dahl ci racconta di non aver nessuna intenzione di infliggersi pure l’università
dopo le atrocità vissute sui banchi di scuola, si capisce che la galleria umana
che vi ha incontrato è quella che poi ha tratteggiato con efficacia nei
personaggi negativi dei suoi romanzi per ragazzi, una vera palestra di villains che gli sarebbe bastata per
tutta la carriera. In definitiva, Boy non è solo un tuffo nell’infanzia di Dahl, ma la chiave per comprendere il lato più umano – e, talvolta, anche sorprendentemente oscuro – di un autore che ha saputo trasformare le ferite del passato in spunti per le storie indimenticabili che hanno appassionato generazioni di lettori.
Roald Dahl, Boy,
Milano, Salani, 2011; pp. 190
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