La canadese Margaret Doody è una scrittrice per diletto, di
professione insegna inglese e letteratura comparata alla Vanderbilt University:
nel suo Aristotele detective mette
in campo il mitico filosofo di Stagira nelle (teoricamente) per lui inedite
vesti di investigatore. Un’operazione non troppo diversa da quella vista ne Il nome della rosa di Umberto Eco: un
omicidio, un frate investigatore, un ambiente chiuso come un’abbazia, insomma
tutti gli ingredienti classici del giallo, colorato da Eco a modo suo, grazie
anche ai dettagliati studi da lui svolti su quel particolare periodo storico. Anche
la Doody gioca la stessa carta: un delitto, un investigatore insospettabile e
un contesto storico rigorosamente ricostruito. Il romanzo della Doody è la
dimostrazione pratica di cosa succederebbe applicando il sillogismo
aristotelico ad un delitto: la risposta, stando all’autrice canadese, è che
avremmo trovato il primo prototipo di Sherlock Holmes della storia, o meglio di
Nero Wolfe, dato che Aristotele è una mente ordinatrice di indizi raccolti
dalla classica spalla, in questo caso un giovanotto ateniese di nome Stefanos,
suo ex studente del Liceo, volenteroso, simpatico, ma non abbastanza sveglio da
ordinare in proprio un’indagine che lo tocca direttamente. Perché accade che
Stefanos sia uno dei primi testimoni dell’omicidio del facoltoso oligarca
Boutades e che dell’omicidio sia incolpato a sorpresa proprio un cugino
latitante di Stefanos, che dovrà improvvisarsi suo difensore in aula. Sulla
scena del delitto pare non siano stati ritrovati indizi significativi, almeno
per gli occhi comuni, non per quelli di Aristotele, che se li fa esporre da
Stefanos “come se si trattasse di un problema di geometria”: poi ragiona,
stabilisce collegamenti ed utilizza il suo ex studente in qualità di esecutore
materiale delle indagini. Ed alla fine Aristotele arriva ovviamente alla
soluzione del caso, affidando l’incarico di esporla con logica implacabile a
Stefanos, che smaschererà il vero colpevole come un Perry Mason in versione ellenica,
nel corso della sua arringa finale. In Aristotele
detective alla buona idea di base segue un magistrale svolgimento:
l’ambientazione è puntuale e calata nel periodo in modo impeccabile (siamo
nell’Atene del IV secolo a.C., è bene ricordarlo), la rappresentazione di
Aristotele è credibile, la storia funziona e la suspense regge sino all’ultima pagina, come in ogni buon giallo che
si rispetti. Il successo dell’idea ha reso Aristotele
detective l’episodio apripista di una serie poliziesca che a buon diritto
può definirsi “classica”… E per giunta battendo sul tempo anche Il nome della rosa, dato che Aristotele detective uscì nel 1978, in
leggero anticipo rispetto al fortunato bestseller
pubblicato nel 1980 dal professor Eco. Tra parentesi, il romanzo della Doody ha
anche l’innegabile merito di rendere la logica una lettura intrigante fino all’immancabile
soluzione ad effetto che un buon giallo svela soltanto alla fine. Insomma, chi
avrebbe mai immaginato che il vero antesignano del detective moderno parlasse in greco antico e ragionasse per
sillogismi?
Margaret
Doody, Aristotele detective, Palermo,
Sellerio, 1999; pp. 449